martedì 5 agosto 2008

Aci S.Antonio cenni storici


L' anno 1169 a seguito di una forte eruzione ad accompagnata da forte scosse di terremoto, gli abitanti di Aci S.Antonio lasciarono la parte costiera e si ritirarono in queste amene contrade ricche di boschi e di abbondante legname; qui diedero vita al piccolo borgo di Casalotto.Nel I 408 questo borgo fu minacciato da una colata lavica che si fermò poco distante dal piccolo borgo; le preghiere degli abitanti a S. Antonio abate scelto come loro patrono e protettore riuscirono a fermare il pericolo.Lotte interne con la vicina Aquilia indussero gli abitanti di Casalotto e dei borghi vicini a chiedere al viceré di Palermo la separazione da Aquilia Vetere; questa fu ratificata nel 1640 a firma dei luogotenente cardinale Giannettino Doria arcivescovo di Palermo.L'11 di Gennaio dell’anno 1693 fu un giorno di grande lutto perché un terribile terremoto, di proporzioni mai registrate, distrusse l’intera Sicilia orientale: ad Aci S. Antonio perirono 143 persone e vennero abbattute tutte le chiese tranne quella dei padri mercenari.Il 1700 fu il secolo d' oro per Aci S. Antonio. Pittori scultori architetti, valenti mastri d' opera si avvicendavano per la ricostruzione e l'abbellimento dei maggiori edifici. Opere pregevoli di questo periodo furono:la chiesa di S. Antonio Abate, quelle di S. Biagio e di S. Michele arcangelo, il palazzo Reggio Carcaci, il palazzo Puglisi il palazzo Gagliani. L' 800 vide consolidarsi la ricca borghesia terriera e lo sviluppo dell'attività commerciale con la vicina città di Catania. Largo impiego in questa attività commerciale ebbe il carretto che fu riccamente ornato da valenti mastri carradori.





PERSONAGGI STORICI

Mons. Giovanni Pulvirenti (1871 1933)Sacerdote e poi vescovo di Anglona e Tursi e Cefalù fu strenuo difensore dei diritti dei poveri contro la prepotenza. Rivolse la maggior parte delle sue energie per i diseredati. Curò con zelo l'educazione dei bambini e per essi fondò I'oratorio festivo intervenendo attivamente al dialogo nazionale promosso dalla Chiesa. Oggi le sue spoglie riposano nella chiesa della Madonna delle Grazie attigua all' oratorio.Rosario Pulvirenti (1899 1966)Pittore cosmopolita ed eclettico. Curò la sua formazione frequentando assiduamente i musei di Firenze. Stabilitosi a Roma subì il fascino delle avanguardie del Novecento. Allestì parecchie mostre in Italia ottenendo consensi di pubblico e di critica. Oggi si sta tentando di formare un catalogo delle sue opere. Temi ricorrenti delle sue tele sono: paesaggi , i ritratti e i soggetti religiosi.Eleonora Pulvirenti (1912 1990)Scrisse quattro romanzi “Un dramma della vita”, “Scalatori di vette”, “Alba chiara”, “Una torre d' acciaio in un mare d' erba”. Attualmente Alba Chiara è stato adottato come testo di narrativa presso la scuola media Alcide De Gasperi di Aci Sant’Antonio.Mons Michele Messina (1909 Acicatena 1976)Sacerdote e parroco di Aci S. Antonio.Tra le tante attività si preoccupò di recuperare la memoria storica di questo paese scrivendo “Notizie storiche su Aci S. Antonio”Raimondo Cantarella (1828 1920)Fervido sostenitore dell'unita' d' Italia appoggiò apertamente la caduta dei Borboni inneggiando a Vittorio Emanuele re d'Italia. Nelle lotte civili si schierò sempre dalla parte dei poveri. Si adoperò per organizzazione del civico corpo musicale, riscotendo il plauso generale. Quando morì, il dott. Lucio Pulvirenti ne curò l' imbalsamazione.Mons. Michele Cosentino





La Parrocchia Sant'Antonio Abate di Aci Sant'Antonio

I primi abitanti che formarono il borgo di Casalotto avvertirono subito il bisogno di affidare a Dio se stessi, le loro famiglie, le loro terre, e vollero scegliere uno speciale protettore, un Santo Patrono al quale potessero ricorrere nei loro molteplici bisogni.
La scelta cadde su S. Antonio Abate, non a caso, ma perché avranno saputo che era vissuto lontano dal mondo, nella solitudine, nella campagna. L'esperienza terrena fatta da Antonio era, in certo senso, vicina alla loro; infatti vivevano essi lontano dalla città, in campagna, allevavano animali che li aiutavano nel lavoro e davano loro di che vivere.
Infatti, sentirono il bisogno di pregare insieme e di esternare la loro fede; per questi motivi si costruirono una Chiesa, certamente piccola in un primo tempo, dedicata a Dio e al Santo Patrono.
Non ci è dato conoscere come si svolgeva nei primi tempi la vita religiosa. Conosciamo che la Chiesa più antica e più vicina era quella di Nostra Signora di Valverde, e dunque ad essa dovette affiliarsi la nuova Chiesa costruita nel loro quartiere.
Valverde diventò importante perché considerata terra prediletta di Maria per cui i Vescovi di Catania nella cui giurisdizione essa era inclusa curavano molto la devozione alla "Madonna della gru" inviandovi dei sacerdoti perché si prendessero cura dei pellegrini e delle persone che in quelle terre abitavano.
Come oggi, così nel passato la gente ha sentito il bisogno di unirsi per aiutarsi, difendersi, sentirsi più sicura, progredire. Questa unione, nel passato più che nel presente si attuava per i cristiani attorno ad una Chiesa quale centro di vita religiosa e civile.
Così avvenne per quel nucleo di famiglie che formarono il quartiere di Casalotto. Mano a mano che ci si affezionava al luogo cresceva il numero degli abitanti, la terra veniva resa più ospitale e pronta a dare i suoi frutti, i boschi diventavano prati adatti alla coltivazione.
Si era creata così una comunità di lavoro, di animi, una comunità di amore e di fede. Per l'amministrazione dei battesimi, per celebrare i matrimoni tra i giovani dello stesso borgo o di altri borghi vicini, per poter fare insieme le loro pratiche religiose crescendo sempre più il numero degli abitanti, si sentì il bisogno di avere una Chiesa più grande, un campanile che diventasse voce sonora per tutte le esigenze, dall'allarme per l'incendio alla chiamata alla Messa, dal segnale per l'inizio o la fine del lavoro (Padre nostro - Ave Maria), dagli annunzi di nascite e quelli di morte. In quell'epoca gli stessi cadaveri trovavano posto sotto il pavimento delle Chiese!
La storia purtroppo non ci fa conoscere quando iniziò questo servizio religioso, quando fu costruita la prima Chiesa, quando essa fu ampliata, quale giurisdizione aveva il sacerdote che l'officiava. Il canonico Raciti ci fa sapere che la Chiesa di Casalotto era antica quanto il primo villaggio di Casalotto e che essa venne elevata a Chiesa Sacramentale nel 1556 da Mons. Caracciolo, vescovo di Catania, pur rimanendo alla dipendenze di quella di Valverde. Non possediamo altri documenti se non quello, assai prezioso, che si riferisce al Decreto emanato dal Vicario di Catania nel 1563. In esso, datato 10 gennaio 1563, si legge che il Vicario Generale di Catania concede agli abitanti di Casalotto il permesso di portare in processione il 17 gennaio di ogni anno la Statua del Patrono S. Antonio Abate.
Ciò fa supporre che la devozione al Santo fosse parecchio anteriore a quella data, che gli abitanti avessero fatto costruire una statua che lo raffigurava e che disponessero di un mezzo per portarla in processione, che esistesse una Chiesa abbastanza sufficiente per la popolazione, ovviamente, che ci fosse del clero che officiava la Chiesa pur dipendendo dalla Parrocchia di Valverde, come espressamente detto nel citato decreto.
A questa data non esiste ancora la Parrocchia autonoma; essa verrà in appresso, nel 1566, a quanto ci è dato sapere.
Come Parrocchia autonoma o come Chiesa sacramentale soltanto, in essa si amministravano i sacramenti del battesimo, del matrimonio e si celebravano le esequie. Ne fanno fede i registri dove sono segnati coloro che venivano battezzati, coloro che si sposavano e coloro che passavano a miglior vita: "Liber Baptizatorum, Matrimonii et Defunctorum". Tali registri iniziano nel 1574 e vanno sino ai nostri giorni; sono ben ordinati e ben conservati; sono registri che poche delle antiche parrocchie possiedono. Essi fanno onore ai sacerdoti del tempo i quali attuarono subito il decreto del Concilio di Trento in cui si stabiliva di segnare in appositi libri l'amministrazione dei Sacramenti. Questi libri sono il segno autentico che la Chiesa di Casalotto era nel territorio tra le più importanti del tempo, e già con vitalità "parrocchiale".
Nel primo volume che va dal 1574 al 1613 sono legati insieme i fascicoli che riguardano battesimi, matrimoni e defunti mentre dall'anno 1614 abbiamo tre distinti registri; solo dal 5 settembre 1760 inizia la registrazione delle cresime. In quell'anno era vescovo di Catania Mons. Salvatore Ventimiglia che, in occasione dalla S. Visita tenuta nella città di Aci S. Antonio, confermò quattrocentoquarantadue persone tra adulti e ragazzi. Sono segnati tutti i nomi dei cresimati con il cognome e la paternità.
Sfogliando questi registri troviamo delle date e delle notizie molto preziose; sono punti di riferimento per la storia della nostra Parrocchia e anche del nostro Comune, non possedendosi altre fonti storiche di tanto valore.
Il primo atto di battesimo è del 10 febbraio 1574. è scritto in un idioma particolare: "Die X febbruarii 1574 Ego Presbitero Francesco Bua battizzai la figlia (di) Antoni Cristaldo (di) nome Maria in foribus ecclesia in sacro fonte la tinni Jeronimo Culmo".
Nel primo atto di matrimonio si legge: "Jo presbitero Caesaro Falco Cappellano di lo Casalotto ho promulgato in la venerabile Ecclesia di Santi Antoni per tri festi solenni ccossì como comandano li sacri canoni di lu consiglio tridentino lo matrimonio infra Petro Cuturi et Petruzza Cristaldo et infra loro non ci fu nissuno impedimento pertanto li ho dati li sacramenti di la Santa matri Ecclesia presenti Jeronimo Culmachi et Franciscu Ardizzuni. Die 8 febbraio 1574". I due atti trascritti provano che la Chiesa di S. Antonio Abate nel 1574 fungeva da vera Chiesa parrocchiale dal momento che in essa si amministravano i sacramenti, compreso quello del matrimonio compiendovi anche gli atti preparatori, incluse le pubblicazioni.
Pochi anni più tardi, nel 1579, D. Cesare Falco è detto Cappellano "della Parrocchia di Casalotto". Andando avanti si moltiplicano i Cappellani e nel 1616 uno dei due Cappellani è detto "Vicario".
In quel tempo la Parrocchia era molto estesa, anche perché esteso era il territorio comunale. Si estendeva fino a Bongiardo e a Pisano come provano gli atti di matrimonio del 10 settembre 1799 e un attestato del 1845 che enumera tra le chiese del Comune quella della Abazia di Pisano il cui cappellano ha il titolo di "abate". Può esserne anche prova il fatto che in un antichissimo quadro che si conserva nella Chiesa di Bongiardo, assieme alla Madonna sono raffigurati dei Santi tra cui S. Antonio Abate.
Si sa bene che le Parrocchie furono riorganizzate dal Concilio di Trento (sessione 24ma) ma che la loro configurazione attuale non è anteriore alla promulgazione del Codice di Diritto Canonico del 1917.
Nel '600 in molte Diocesi il Vescovo era non solo il Parroco della Cattedrale, ma anche il Parroco di tutte le chiese della Diocesi.
Così avvenne che la Diocesi di Catania il cui Vescovo era l'unico Parroco di tutte le parrocchie, di fatto affidate ad un sacerdote che fungeva da parroco, ma che si chiamava Vicario o Viceparroco. Ad esso erano concesse tutte le facoltà dell'attuale parroco.
Così la parrocchia di Casalotto in S. Antonio di Jaci ebbe in D. Antonio Cunsolo il suo primo Vicario o Viceparroco del vescovo di Catania. Questo stato di cose nella nostra parrocchia dura fino al 1921. Infatti, sebbene parrocchia autonoma riconosciuta civilmente, come provano le sentenze del Tribunale civile di Catania del 6 febbraio e del 12 settembre 1891, la parrocchia ebbe il suo assetto definitivo il 19 dicembre 1921. In tale data Mons. Salvatore Bella, Vescovo di Acireale, costituendo contemporaneamente ben quarantadue parrocchie, conferma quelle esistenti e sancisce che a capo di ognuna vi sia un Parroco coadiuvato, occorrendo, da uno o più viceparroci. L'antico "Vicario" diviene, talvolta, "Vicario Foraneo" in quanto presiede in qualche modo ad un gruppo di Parrocchie di un ben delimitato territorio.
Dal 1616 al 1921 ben ventisette Vicari ressero la nostra Parrocchia. Tutti hanno lasciato segni della cura per la Chiesa Madre che è certo tra le più belle ed artistiche di questo versante etneo.
In tutti questi anni il Clero locale con il suo esempio e il suo zelo ha dato un valido contributo alla formazione cristiana dei santantonesi e alla costruzione o ricostruzione delle varie chiese del nostro paese. Quelli di loro che per motivi vari si sono allontanati e anno talvolta occupato posti di responsabilità altrove, hanno fatto onore alla loro parrocchia d'origine. Un elenco dei Vicari, dei vari Cappellani e dei tanti Sacerdoti legati ad Aci S. Antonio è riportato alla fine di questa pagina per il valore storico che esso può avere.
Ma tra i tanti nomi mi pare sommamente doveroso citare quello di un sacerdote rivestito dalla dignità episcopale a onore e vanto della nostra terra: Mons. Giovanni Pulvirenti. Nel volume edito dopo la sua morte è illustrata la sua vita di sacerdote e di Vescovo; a noi basta qui ricordarlo, soprattutto come fondatore dell'Oratorio Festivo e come educatore di tanti giovani. Per suo espresso desiderio i suoi resti si trovano sepolti nella Chiesa "Madonna delle Grazie" accanto all'altare del SS.mo Sacramento del quale egli fu devotissimo, e accanto all'altare della Madonna che considerò sempre come sua particolare madre. Come è detto altrove, l'Oratorio, comprato a sue spese, alla morte passo al fratello Gaetano che, rispettando la di lui volontà, lo donò alla Parrocchia con atto del 19-1-1955.





Nascita della Chiesa madre di Aci Sant'Antonio



E' stato scritto che la zona acese si caratterizza per la sua viva tradizione di fede, di cui danno testimonianza i frequenti edifici sacri. Di questi monumenti di fede fa parte la Chiesa Madre di Aci Sant'Antonio che la pietà dei fedeli ha voluto costruita e ricostruita a dispetto delle ire della natura. La primitiva Chiesa di Sant'Antonio, venne elevata a sacramentale da Mons. Nicolò Caracciolo nel 1566 e dovette "essere riedificata per deliberazione del Consiglio dell'Università acese il quale il 6 gennaio 1601 le accordò un sussidio di onze 60 confermato dal R. Patrimonio il 16 marzo 1602". Dai registri contabili risulta che ogni anno un predicatore, per lo più un conventuale si fermava in parrocchia per la predicazione quaresimale, e ciò richiese presto un'abitazione che potesse ospitarlo: nacque così la "casa del predicatore". La somma stanziata per tale predicazione fu per quei tempi la voce più consistente del bilancio. L'aumento della popolazione richiese l'aumento dei "pastori". Nel 1616 si arrivò a cinque Cappellani. Dai medesimi registri si desume che nel 1613 fu fatta la spesa per il fonte battesimale e per una custodia d'argento con piede3 di rame per portare il SS. Sacramento agli ammalati. Nel 1617 si pagano tre onze a Don Nicola, argentiere, per "lo strumento della paci". Nel 1619 si fanno spese per la fabbrica della Chiesa e nel 1620 si pagano onze due a Cesare Caruso per una fonte per l'acqua benedetta che, verosimilmente, è quella posta accanto alla porta principale della Chiesa (lo stile infatti e le sue condizioni la dicono molto antica). Il 3 marzo 1639 il Comune di Acireale assegnava ad Aci S. Antonio le entrate dei dazi destinati alla fabbrica del Convento dei Francescani, non ancora cominciato e che non fu mai costruito per dissidi amministrativi. Con l'accresciuto benessere e con l'aumento della popolazione il borgo formatosi intorno alla chiesa di S. Antonio Abate potè gareggiare con quelli vicini per prosperità e prestigio. Nel 1640 otteneva il privilegio della fiera franca e nel 1672 il titolo di "Principato". Era il tempo della munifica sovranità dei principi Riggio di Campofiorito; della relativa serenità locale; di quel periodo fanno fede le spese e le realizzazioni anche riguardanti il culto. Nei registri parrocchiali di "Conti introiti ed esiti" del 1656 si parla di realizzazione del pulpito; nel 1658 di spese per la sostituzione"delle sei colonne della Vara del Glorioso S. Antonio" e di indoratura della stessa "vara". Nel 1681 si fa la spesa per la costruzione della "casa della vara" e nel 1699si fanno "il bacolo d'argento e la mano d'argento" che costituisce il reliquiario del Santo. In quel tempo oltre alla Chiesa Madre furono erette le altre chiese nel centro abitato. La chiesa della Madonna delle Grazie, piccola ma necessaria in un rione antico, povero ma abbastanza popolato. Fu costruita nello stesso posto dove si trova l'attuale, ma si ritiene essere stata molto più piccola. La chiesa di S. Domenica che in seguito sarà detta chiesa della Mercé perché religiosi detti "Mercedarii" la presero in cura quando vi costruirono accanto un loro convento. Furono erette inoltre la chiesa di S. Biagio, sede della Confraternita del Purgatorio e della Morte e quella di S. Michele Arcangelo anch'essa sede di un'altra Confraternita, quella del SS.mo Sacramento come altrove detto. Il terremoto del 1693 rase al suolo tutti gli edifici sacri e non restò che la chiesa di S. Domenica. Ci volle l'interessamento fattivo dei Riggio unito all'impegno e al sacrificio dei fedeli per avere al più presto ricostruita la Chiesa Madre nelle attuali dimensioni e, successivamente, anche le altre chiese. Dell'attività seguita al terremoto dà conto un volume dal titolo "Introito da esito dal 1681 al 1739". In quest'ultimo volume, accanto alla nota "Fabbrica della chiesa capanna". in una annotazione del gennaio 1694 riferentesi a spese sostenute nel 1693, si legge che "si dà mandato al sac. Angelo Quagliata per avere fatto la spesa alla fabbrica dell'ultima ( = ultimata) chiesa capanna al 30 gennaio 1694 di onze 32, tarì 44, grana 11". Si tratta dunque di una costruzione provvisoria, probabilmente in legno, nell'attesa di ricostruire un novello tempio sulle rovine di quello distrutto. Infatti, un mandato in data gennaio 1695, riferentesi all'anno 1694, informa che sono state pagate "onze 30, tarì 3, grana 51 per la calcina ed onze 3 di rina portata e consegnata". Considerando la cospicua somma e il basso costo della calce e della sabbia, si può dedurre la quantità rilevante del materiale destinato appunto ad una grande impresa. Fra i "mastri d'opera" sono più oltre indicati Salvatore Amico e Mario Pulvirenti. Nel 1699 si ha motivo di ritenere che era già innalzato nelle sue linee essenziali poiché si credette opportuno sistemarvi una campana per la cui fusione venne utilizzato il materiale della campana del tempio distrutto. Infatti nel rendiconto del gennaio 1699 risulta che furono pagate "onze 7, tarì 1, grana 5 al maestro Giacinto Gullo da Messina per avere fuso una campana rotta di cantara 2,15". Nel rendiconto riferentesi al1699, si legge che si dà mandato di pagare Giuseppe Puglisi onze 36, tarì 6, grana 19 "per legname necessario al coperto di detta Matrice Chiesa. E' del 1702, con registrazione al 31 gennaio 1703 la "fabbrica del Cappellone" per una spesa di onze 24, tarì 19, grana 3; secondo una denominazione ancora in uso nella zona di Acicatena, il nome "Cappellone" sta ad indicare il coro dell'altare maggiore. Nel 1708 viene fusa la seconda campana del peso di 3 cantara e per il costo di 8 onze, da tale Domenico Nicotra; nel 1709 si acquistò da "Giovanni Cutroni e compagni da Messina il legname per la fabbrica di una bara del glorioso S. Antonio - il nuovo fercolo - per la spesa di onze 19". Ancora altre sei onze vengono pagate a Don Michele Goliti "deputato della bara", cioè membro di una commissione per l'allestimento del fercolo. Sembra che tale esecuzione sia stata alquanto laboriosa, perché ancora otto anni dopo si fa menzione di "dispensione al baiardo della bara di S. Antonio", cioè a spese per le rifiniture della parte inferiore dello stesso fercolo. E' dello stesso anno il mandato di pagare onze 15, tarì 3 a don Giovanni Lo Coco da Acireale per la pittura del Cappellonetto di S. Antonio: lo stesso pittore infatti è nominato ancora più oltre per "avere pinzo la cappella del beato S. Antonio". Con questa notizia le fonti divengono più avare di dati; solo nel 1721 annotano un mandato a Giuseppe Rizzuto da Paternò e al figlio Mario "per la costruzione dell'organo"; per il resto bisogna far ricorso alle tradizioni orali che ancor oggi sono vivide e persistenti.



Pianta e prospetto della chiesa


Nelle linee attuali la Chiesa è formata da un corpo longitudinale diviso in tre navate da un doppio archeggiato che sorregge la sopraelevazione muraria su cui poggia il soffitto rialzato della navata centrale. Le due file di pilastri si arrestano incontrando il transetto, in modo da aversi un tipico esempio di pianta "a croce latina" chiamata anche "croce comissa o patibulata" per lo sporgersi del transetto. Prima di entrare nel tempio, ammiriamone il prospetto che sappiamo essere opera dell'architetto Carmelo Battaglia da Catania. Infatti nei volumi dei mandati, relativamente al 1789 si legge: "pagare onze 3 a don Carmelo Battaglia per il disegno del prospetto della Chiesa Madre". Il prospetto è diviso in due ordini e presenta delle semicolonne accordate da timpani - triangolare il primo, leggermente arcuato il secondo - culminato nello slancio moderato del campanile. Il timpano triangolare che sovrasta la porta centrale è fiancheggiato da due semitimpani interrotti, recanti sulla loro linea inclinata due puttini in instabile equilibrio. Il secondo timpano ripara la nicchia che accoglie la statua del Santo, a sua volta fiancheggiata da lesene sormontate da capitelli dello stesso stile. Ancora due lesene più brevi fiancheggiano l'arcuata finestra del breve campanile. Lo slancio quindi, partendo dalla zona inferiore, si esaurisce verso l'alto. Apprendiamo dal volume dei mandati (1771 / 1793) che "tutta quella pietra bianca abbisognata al nuovo prospetto fu fornita da don Giovanni Platania della Città di Catania, che l'allestimento fu alquanto laborioso poiché si protrasse dal 1787 al 1792, anno in cui la facciata fu completa e vi fu apposta la porta maggiore. Sono menzionati per "maestria" del prospetto don Emanuele de Martinez e don Francesco Oliveri e nell'anno 1792 vi è annotata una spesa di 18 tarì per "brindisi alli mastri". Di data posteriore, è cioè del 1797, sono "li finimenti" del prospetto. Infatti nel volume riguardante gli anni 1793 / 1811, accanto alla didascalia "finimento del prospetto", cos' si legge: "pagare onze 10 al signor Pietro Maugeri della città di Catania per avere magistralmente terminato di stucco la statua del nostro glorioso Patrono e i due puttini situati sul prospetto della onorevole chiesa madre". Nel Mandato di pagamento relativo all'anno 1798 si nominano i "maestri" Venerando D'Agata, Alfio Allegra e Raimondo Di Giovanni per "maestria" della croce in ferro che corona il prospetto innalzandosi sul campanile. Più oltre, sono menzionati il maestro Raimondo Di Giovanni per avere fuso la palla di rame su cui poggia la croce, e don Domenico Privitera, marmoraio della città di Catania, quest'ultimo per avere atteso l'allestimento della "lapide di marmo con sue fasce ed iscrizioni" che sovrasta la porta maggiore, e in cui si legge:
D.O.M. DIVO ANTONIO ABBATI PATRONO CIVES
Dunque nel 1797 il prospetto aveva assunto l'aspetto attuale; Panebianco e compagni completavano la porta maggiore e Domenico Nicotra fondeva la terza "campana piccola", quella per intendersi, che è posta al lato sud del campanile.





Interno della chiesa: Le navate


L'interno della Chiesa rivela architettonicamente una solida coordinazione delle singole parti conformemente con tipica disposizione della pianta a croce latina. Il presbiterio è arricchito da un coro ligneo e da affreschi di Paolo e Alessandro Vasta alle pareti e nel catino. Le navate minori terminano, oltre il transetto, a destra con la Cappella dedicata al Santo Patrono e a sinistra con quella al SS. Sacramento. Lo stesso Transetto trova un prolungamento nelle Cappelle del Crocifisso e di S. Giuseppe. La prima coppia di arcate che scandiscono le navate sostiene la cantoria nella quale si trova un antico organo che è carico non solo di anni ma anche di firme di cantori e di visitatori. Nella navata di sinistra, dopo la porta che immette nella casa canonica, si trova un piccolo altare sormontato da un quadro di buona fattura raffigurante l'istituzione dell'Eucaristia. Esso risale al 1759 e porta in alto la didascalia tratta dal Vangelo di Luca "accepto pane, gratias egit". In torno alla tavola che è al centro della scena stanno le figure di Cristo e degli apostoli, mentre Giuda dallo sguardo sfuggente è rivolto invece verso l'osservatore. In primo piano un coppiere verso del vino, su un altro piano un angelo adorante. Nonostante l'antichità del dipinto, risaltano ancora i rossi drappeggi del manto di alcuni apostoli e la tinta cinerina della tovaglia che copre la mensa. E' evidente l'influsso del barocco nella angolazione della prospettiva, nell'enfasi delle pose e nella maniera di fissare gli atteggiamenti. Subito dopo l'altare descritto, si apre la Cappella dell'Immacolata che si innalza su una irregolare pianta ottagonale le cui sfaccettature sono delineate da semicolonne; una cupola dalle lievi ed aggraziate decorazioni in stucco corona l'insieme. La parete centrale della Cappella è occupata da un dipinto che sappiamo opera dello Sciuto eseguito nel 1789. La Vergine vi è raffigurata alla maniera convenzionale, in manto azzurro e con ai piedi la luna; le tinte sono vivaci e le forme poco articolate. A coronamento si legge una espressione celebrativa tratta dal Libro della Sapienza: "Nondum erant abissi et ego jam concepta eram". A sinistra del dipinto, in una piccola nicchia, l'immagine della Madonna pellegrina di delicata fattura settecentesca, cui i fedeli, come si legge, hanno dedicato "promesse d'amore" a conclusione della visita dell'immagine stessa nelle loro dimore tra gli anni 1954-1956. A destra ancora una candida statua dell'Immacolata in una nicchia rivestita di pietra lavica risalente al tempo in cui era Parroco il sac. Salvatore Leotta, e cioè tra gli anni 1928-32. Va aggiunto che sull'altare, sottostanti il dipinto dello Sciuto si trovano quattro reliquiarii lignei, preziosi esemplari di arte acese, il cui colore aureo è dato dalla famosa "mistura d'argento". Pare che si trattasse di una composizione con fondo a base argenteo e mistura di oro spalmata più volte sì da fare alla fine quel bel colore aureo che ancor oggi si ammira: la formula di tale composizione, patrimonio segreto e geloso di alcuni ignoti maestri acesi, è scomparsa con essi. Le reliquie sono racchiuse in ovali circondati da volute auree e sormontati da una pseudo-corona da cui si dipartono delle foglie parimenti auree e dei fiori colorati con sfumature cinerine, rosse e azzurre. Tale decorazione floreale è poi ripresa in basso all'interno dell'ovale, ed in un piccolo riquadro del piedistallo. Della stessa fattura pare sia la porticina a tamburo del tabernacolo, forma che si ripete nell'altare del SS.mo Sacramento e che è caratteristica esclusivamente della zona acese, perchè altrove è abbattente. La porticina riporta incisi e poi dorati, probabilmente con la stessa mistura, motivi geometrici con al centro la consueta raffigurazione simbolica dell'agnello; il tutto superiormente coronato da un drappeggio. Ritornando nella navata, si incontra subito l'altare dedicato alla Vergine del Carmelo, celebrata in un quadro sistemato nella consueta inquadratura architettonica. La Vergine, superiormente esaltata come "Decor Carmeli", assisa su nubi e circondata da Angeli, porge l'antico scapolare al fondatore dell'Ordine carmelitano S. Simone Stock. Attorno a Lei il Profeta Elia, un altro personaggio non bene identificabile, S. Teresa d'Avila ed altri aggregati all'Ordine; in basso le anime purganti, tra fiamme in verità poco terrificanti, attendono per intercessine della Vergine e dei santi carmelitani la liberazione. La fede dei cittadini ha voluto sovrapporre al dipinto, in corrispondenza del capo della Vergine e del piccolo Gesù, delle corone argentee; una stella anch'essa argentea brilla sul manto di Maria. Sull'altare ancora quattro requiliarii lignei con al centro un piccolo ovale circondato da volute simili a lingue di fuoco incrociantesi. L'effetto e l'esecuzione sono inferiori a quelli della Cappella dell'Immacolata; la tinta aurea è più pallida e fa pensare ad una variante della detta mistura acese. Nella navata destra la disposizione degli altari è analoga a quella di sinistra; in corrispondenza però della Capella dell'Immacolata si apre la porta laterale del tempio sormontata, come altrove si è detto, dalla scritta: "Acis Superioris Principium et Nomen". Di fronte all'altare dell'Eucaristia sta, in analoga architettura l'altare dedicato as SS. Pietro e Paolo con quadro dello Sciuto sormontato della scritta "Principes vincti sunt pariter". Le figure degli apostoli, sormontate da un angelo con la doppia palma del martirio, recano in mano rispettivamente i consueti simboli delle chiavi e del libro delle lettere, e sono costruite su due diagonali incrociantesi trasversalmente; qui fa da base ideale la Spada di Paolo sul pavimento. Anche questo dipinto rivela predilezione per i toni accesi e per le forme un pò gonfie. Accanto all'altare, tra esso e la porta frontale minore, l'imponente battistero che risale, come si è detto, al 1613. Oltre la porta laterale, di fronte all'altare della Madonna del Carmine, vi è quello della Madonna del Rosario. La Madonna è rappresentata in un dipinto di buona fattura ma di autore ignoto, circondata da S. Domenico, S. Rosa da Viterbo e S. Vincenzo Ferreri; intorno alle figure si notano, compresi entro medaglioni, i misteri del Rosario addirittura miniati entro il piccolo riquadro dell'ovale. Delicati i colori buona la composizione delle figure che sembrano rifarsi alla scuola del Vasta, al pari del dipinto raffigurante la Vergine del Carmelo. Sull'altare ancora quattro reliquiarii in tutto uguali a quelli che ornano l'altare opposto della navata di sinistra. La navata centrale, ampia e luminosa, presenta lungo le arcate ed i pilastri decorazioni pittoriche che ripetono quelle del coro ed è impreziosita dal pulpito. Il pulpito ligneo, risalente al 1725, ormai ha soltanto una funzione ornamentale e decorativa; ha la forma di un'acquasantiera, a decorazione imitante il marmo e con ricchi fregi aurei. Dal tetto pende la colomba che simboleggia lo Spirito Santo ed in un riquadro ovale posto frontalmente si notano i simboli del Santo Patrono. Le decorazioni della navata centrale e delle navate laterali e gli stucchi che incorniciano dette decorazioni sono opera del signor Nunzio Bella e figlio, da Acireale, e sono stati allestiti nell'anno 1965 in occasione del rifacimento decorativo-pittorico delle tre navate. La somma occorsa per tali lavori, come da nota dettagliata, è stata di L. 1.546.122 ed è stata saldata del tutto solo il 17 aprile 1967. I lavori di restauro si vollero legare al quarto centenario della prima processione in onore di S. Antonio, come avrebbe dovuto ricordare la lapide che fu composta ma non collocata, e che qui trascrivo: Hanc vetustam Aedem DIVO ANTONIO ABATI PATRONO dicatam peracto quarto centenario a decreto processionem faciendi eiusque Imaginem circunferendi Paulo VI Summo Pontifice Paschale Bacile Episcopo plaudente populo Archipresbiter Michael Messina restauravit 11.1.1563-17.8.1964.




Il transetto

Molto importante dal punto di vista artistico e storico è il transetto. Nel rimuovere la pavimentazione, circa mezzo secolo fa, è venuta alla luce una zona cava sottostante adibita in passato alla luce sepoltura dei fedeli defunti. Essa oltre che in corrispondenza delle Cappelle del transetto si estendeva anche verso la zona centrale sovrastata dalla cupola. Come ancora affermano testimoni oculari, nelle zone sottostanti le cappelle i corpi erano composti su travi di legno disposte a graticola, simili a un rogo; inoltre nella parte centrale esisteva un sedile circolare in pietra sul quale erano accomodate, come se fossero in coro, le salme degli ecclesiastici. Le salme furono poi tutte tumulate nel cimitero, quando questo fu costruito nel 1872, mentre il sottosuolo della Chiesa fu riempito di opportuno materiale. La cupola che accentra ed esalta la spazialità dell'interno fu costruita nel maggio del 1774 da Giuseppe Costantino di Catania per onze 106, tarì 16 e grana 11, essendo Vicario Don Filippo Ardizzone. Essa è sottolineata da motivi decorativi che richiamano gli affreschi del coro e si estendono ai pilastri e alle arcate, mentre le aperture delle finestre alleggeriscono il volume. Agli angoli della cupola si accampano quattro figure allegoriche femminili che il Raciti ed il Nicotra hanno attribuito a Michele Vecchio, autore anche del S. Sebastiano di Acireale nella omonima basilica, datando l'opera intorno al 1777. Il registro dei conti ha confermato tale attribuzione: in esso si legge che nel 1778 (riferendosi appunto al 1777) "onze 3 a Don Michele Vecchio pittore a conto de quadroni pitturati nella cupola". Gli affreschi raffigurano le virtù teologali, cui è aggiunta la Temperanza che doma le passioni, simboleggiate dal mostro, ed assomma le virtù, simili a gemme equilibrate su una bilancia. Secondo taluni, il quarto affresco raffigura la prudenza, detta da S. Tommaso "auriga virtutum". Il transetto è coronato a sinistra dalla Cappella del Crocifisso e a destra da quella dedicata a S. Giuseppe, entrambe innalzantesi su irregolare pianta ottagonale. Nella Cappella del Crocifisso un Cristo in croce guarda il bellissimo altare di marmo intarsiato con decorazioni floreali, ugualmente marmoree in bianco-rosate su fondo nero; pregevoli due puttini in marmo, posti sulla parte superiore dell'altare, recanti la lancia e la spugna, opera del maestro Melchiore Greco nel 1782. Lungo le pareti della cappella si notano due dipinti, opera piuttosto recente del pittore acese Francesco Patanè, raffiguranti un perplesso S. Pietro col gallo e un ispirato S. Antonio Abate tentato dai demoni. Seguono a sinistra una nicchia ospitante la statua dell'Ecce Homo e a destra, in arcosolio, un Cristo morto, in legno, di piccole dimensioni, ma molto espressivo. Le ultime due figure poste lateralmente al Crocifisso sono le più interessanti: si riteneva appartenessero ad un unico dipinto posto sulla parete centrale, ma in seguito si è scoperto essere state invece realizzate separatamente. Sono le figure di S. Giovanni evangelista e Mari Maddalena da un lato e dell'Addolorata dall'altro. Le figure sono molto ben costruite, armoniosi e leggeri i colori pur nel fondo reso oscuro dal tempo, moderatamente enfatici i drappeggi e dolorosamente espressivi i volti. Una fortunata ricerca tra i volumi dell'archivio parrocchiale ha permesso di attribuire i dipinti al pittore Alessandro Vasta collaboratore e figlio di Paolo Vasta, di cui si dirà meglio appresso. I mandati dell'anno 1793 indicano: "pagare al figlio di Paolo Vasta pittore onze 6 come prezzo di quei due quadroni posti ai fianchi del S. Crocifisso, nei quali sono dipinti S. Giovanni e S. Maria Maddalena e Maria SS.ma". Da notare che la Cappella non aveva in origine la stessa forma ottagonale attuale, ma era quadrata. Lo attesta ancora il vano posto dietro il quadro dell'Addolorata. Risulta inoltre che dietro una parete di mattoni a coltello si trovano delle antiche pitture di non si sa quale valore. Il suo aspetto poligonale è evidenziato oggi dal rosso cupo delle pareti, alleggerito dagli stucchi rifiniti in oro zecchino convergenti nella cupola al cui centro si trova la raffigurazione simbolica dell'Agnello. La Cappella di S. Giuseppe ha un aspetto meno curato; al centro, sotto il dipinto celebrante la Sacra Famiglia, un altare policromo con agli angoli volti di angeli in marmo bianco che sembrano rifarsi allo stile miniaturistico della balaustra dell'altare maggiore. Molto originale la parte superiore dell'altare in legno dorato digradante verso la parete con quattro gradini ornati, nella parete frontale, con fregi floreali a rilievo e decorati in oro zecchino. Al centro di essi i simboli del Santo Patrono: la T, abbreviazione di Taumaturgo, oppure, come si legge in una antica immagine, dell'appellativo di "Terror Averni"; il FUOCO, che sia quello che il Santo ha più volte scongiurato dalla città, sia la malattia che prende il nome di "fuoco di S. Antonio", per la quale si invoca il suo patrocinio; la CAMPANA, appendice del pastorale, e la MITRIA, simbolo della dignità ecclesiastica (Abate). Il dipinto che corona l'altare raffigura S. Giuseppe in seno alla Sacra Famiglia e comprende anche la SS. Trinità in ordine ascendente. E' di autore ignoto come gli altri due quadri alle pareti laterali celebranti con forme alquanto gonfie e di ingenua esecuzione la Natività e l'Adorazione dei Magi. La volta della Cappella è stata dipinta nel 1921 dal pittore Rosario Scavo di Aci S. Antonio che ha voluto raffigurarvi la gloria di S. Giuseppe patrono della Chiesa universale. Infatti, nella parete centrale, sullo sfondo, è dipinta la basilica si S. Pietro. Intorno angeli cantori disposti secondo le sfaccettature della volta; il tutto a tinte vivaci e con intenzione celebrativa.




Il Cappellone e i Cappellonetti


Come si deduce dalle solite "note spese", un certo don Giovanni Lo Coco da Acireale ha "pinzo" la Cappella del Santo intorno all'anno 1708; probabilmente possono attribuirsi a lui queste esecuzioni leggere che si stagliano con una certa grazia su un tenue e sbiadito fondo cinerino. Diciamo "probabilmente" poiché la Cappella conobbe anche il pennello di tale Luigi Strano; si legge sopra l'arco, dal lato interno, "Luigi Strano pinse dal 1894". Immediatamente in alto, a sinistra, entro un arco che confina con la cupola, ecco un'opera attribuita all'acese Pietro Paolo Vasta che Lionardo Vigo considera come il più grande pittore siciliano del secolo XVIII. Alunno di Antonio Filocamo e ideale discepolo di Giacinto Platania, Paolo Vasta si perfezionò a Roma alla scuola di Luigi Garzi, divenendo a sua volta maestro del celebre Vito D'Anna, nonché fondatore di una scuola pittorica che da lui prese il nome di "vastesca" e che molto operò, assieme al maestro, nella zona acese. A lui il Raciti riconosce il merito di avere reso monumentali con i suoi preziosi affreschi le chiese di S. Sebastiano, dei Crociferi, di S. Maria del Suffraggio, di S. Antonino e della Cattedrale di Acireale. E' il Nicotra che attribuisce a Paolo Vasta l'affresco che trovasi sulla nicchia che accoglie la statua del Patrono, raffigurante la sepoltura di S. Paolo eremita. Il vecchio Santo, visibilmente prossimo alla morte, è sorretto da alcuni angeli, mentre S. Antonio osserva assorto due leoni che - in primo piano - si accingono a scavare una fossa per l'Eremita morente; sulla scena aleggia un senso di pietà, di pacata accettazione della morte ed una grande serenità. "Questo affresco che ha molto sentimento ed anche originalità, rimase coperto per un certo tempo con un intonaco a calcina e venne rimesso alla luce solo pochi anni or sono in occasione di restauri nella Cappella" come conferma il Nicotra che scriveva nel 1905. La statua del Santo Patrono custodita nella nicchia, probabilmente di data anteriore alla costruzione della Chiesa, dovrebbe essere quella stessa della quale si parla nel privilegio concesso nel 1563 dal Vicario Anzalone. Nessun documento infatti riporta mandati di pagamento per l'acquisto o la esecuzione del simulacro del santo, mentre si hanno documentate notizie per il fercolo che doveva accoglierlo. Neppure la tradizione orale tramanda alcunché a riguardo ed è possibile e probabile che la statua abbia superato indenne la rovina del terremoto del 1693. La statua è confezionata con materiale composto di sacco e gesso, come si può facilmente constatare. Solo la testa e le mani, nonché un sostegno interno, solo di legno, ma risultano ben fusi con il vestimento dal pluviale azzurro che nasconde sotto una vernice dorata dalle decorazioni damascate l'umiltà della sua composizione. Ancora più antica sembra la base di legno su cui poggia il santo, decorata con figure chiare a bassorilievo di stile orientaleggiante e risaltanti sul fondo nero. Fra dei puttini un inatteso centauro, raffigurazione pagana simboleggiante le tentazioni; sulla base sono fissate altre due figure, un puttino in legno di fattura posteriore ed un piccolo S. Macario, discepolo del Santo. Di sicura datazione, e cioè del 1789, è il cosiddetto "miracolo del pane" che riveste il pannello scorrevoleche chiude la cappellina. E' opera dello Sciuto, e raffigura il Santo nel consueto atteggiamento pensoso ed assorto, S. Paolo Eremita con un atteggiamento più deciso e indicante un corvo che reca due pani. I colori sono pacati, sfumato lo sfondo, leggere movenze. L'altare di marmo policromo, costruito nel 1843, è continuato in alto da un riquadro marmoreo che si appoggia alla parete ed accoglie il quadro del pittore messinese Michele Panebianco, raffigurante il Santo Patrono; come ammette il Raciti, è un'opera pregevole e sembra più miniatura che pittura. Il Santo vi è ritratto in atteggiamento estatico e adorante dinanzi all'occhio di Dio, su uno sfondo paesaggistico egiziano; la esecuzione è del 1842 e rivela una attenta cura dei particolari. Ancora sull'altare quattro cartegloria in legno dalle ricche volute decorate in argento senza "mistura" e quattro piccoli reliquiari dalla severa composizione. Agli angoli della cappella due grandi candelabri lignei sostenuti da angeli, parimenti decorati con il composto acese, e due candelabri di rame riccamente cesellati; sulla parete sinistra della cappella numerosi "ex voto" attestanti grazie ricevute. Cogliamo qui l'occasione per accennare ad altri "oggetti"realizzati in omaggio al Santo e che non sono collocati nella "sua" cappella. Sono quattro candelore o cerei che durante la processione solenne del Santo per le vie del paese lo accompagnano, quale omaggio di alcune categorie di cittadini. In un inventario del 20-9-1774 è scritto: "sei torce grandi con sue barette di legname: Consoli, Massari, Religiose, Donne, Mastri, Cavallacci". Questa annotazione ci tramanda che in quel tempo esistevano delle grandi torce che servivano per illuminare il percorso della processione e che venivano abbellite e portate a cura di alcune categorie di persone. Più tardi il numero arrivò ad otto e col numero aumentò anche "l'abbellimento". Adesso ne esistono quattro: quella dei "carrettieri", dei "chianisi", dei "zappaturi" e dei "mastri". L'ultima venuta è quella dei chianisi ed è del 1947. Alte circa tre metri, sono di legno dorato con mistura acese e ornato di volute, festoni e puttini. Nella parte poggiante sul ricco basamento sono vivacemente istoriati miracoli ed episodi della vita di S. Antonio, in genere ripresi dai motivi che adornano l'interno della chiesa. I vari piani sono progressivamente rientranti e da essi si protendono angeli e lampade. Di esecuzione anche ammirevole è il farcolo del Santo. Un alto basamento dalla decorazione barocca costiene sei colonne scanalate, coronate dai capitelli corinzi su cui poggiano delle cariatidi. Corona il tutto un architrave sporgente, riccamente istoriato, mentre la mistura acese completa l'opera con il suo tocca aureo. Torniamo alla descrizione della chiesa e precisamente della navata centrale. Essa è continuata oltre il transetto dall'abside o "Cappellone" che si innalza di alcuni gradini sul piano della navata: questo è introdotto da una balaustra in marmo dai colori assortiti e bene armonizzati nelle varie decorazioni a bassorilievo; essa risulta allestita nel 1784 da ignoto maestro. La circonferenza dell'abside è arricchita da un coro ligneo con doppia fila di sedili, opera del maestro Ignazio Patanè e il cui completamento si ebbe solo nel 1789. Il coro è abbellito da opera pittorica dello stesso pittore Sciuto che eseguì i quadri dell'Immacolata, dei SS: Pietro e Paolo ed il pannello davanti alla nicchia del Santo. Per gran parte dell'anno sull'alatre maggiore troneggia un ricco dossello di velluto di pregevole fattura, eseguito nel 1786. Vi si trovano sempre sei candelieri decorati e quattro reliquiari posti tra gli stessi alti candelabri. Anche ai lati della balaustra si trovano due enormi candelabri che ripetono le stesse forme ricche ed eleganti di quelli posti sull'altare maggiore. All'interno dell'arcata in corrispondenza della balaustra si legge in caratteri arabi arcaici la data 1753, la stessa che è ripetuta alla fine della iscrizione assecondante il perimetro della abside. Vi si legge: "ACENSIS POPULUS MAGNO DIVOQUE PATRONO ANTONIO ABBATI DICAVIT PICTURAE VENUSTATE ORNAVIT (anno 1753)". E veniamo agli affreschi che sovrastano gli scanni del coro. Su quello di destra l'autore ha così sottoscritto la propria opera: Vasta P. Nel tempo si è voluto intepretrare la P. come abbreviazione di PINXIT, e in tal caso persisterebbe l'incertezza dell'attribuzione degli affreschi a Paolo o al figlio Alessandro. Un attenta lettura dei "mandati" per gli anni 1745 - 1760 ribadita a pag.244 del Libro dei Conti "introiti ed esiti dal 1741 al 1768" a però confermato la partecipazione di entrambi i pittori, Paolo ed Alessandro, alla esecuzione che fu conclusa l'anno 1753 come attesta la data ivi apposta. La Chiesa Madre di Aci Sant'Antonio può quindi a ragione gloriarsi per aver affidato ai più illustri pennelli siciliani del secolo XVIII le lodi del Santo cui è dedicata. Ed ora passiamo ad osservare più attentamente gli affreschi, confortati dalla certezza della loro paternità, malgrado alcuni restauri fatti da Giuseppe Spina. L'affresco di destra raffigura l'approdo del Santo, in groppa ad un drago alato, sulle rive di un paese non identificabile. Il cielo ha tenui colori che digradano dal rosa pallido all'azzurro, venato di candide nuvole; sullo sfondo delle colline ondulate; in alto una costruzione orientale; esotica la foggia dei copricapo di alcuni personaggi. Manca il cane che la tradizione vuole sempre presente nelle opere del Vasta; é presente il cavallo posto nella posizione degli altri suoi dipinti. L'affresco è accompagnato sino al limite della parete da decorazioni varie con conchiglie e volute comprese entro i riquadri allungati, motivi decorativi che sono ripetuti sulla parete opposta e posteriormente ripresi lungo i pilastri che sostengono le arcate divisorie delle navate. L'affresco di sinistra rappresenta un miracolo che Sant'Antonio avrebbe operato nel deserto: avrebbe fatto scaturire dell'acqua per dissetare la gente. L'episodio vuole paragonare Sant'Antonio a Mosè e, come accenna l'iscrizione che vi si intravede, vuole esaltare la potenza che la preghiera del Santo ha presso Dio. L'affresco della volta raffigurante la gloria del Santo sembra aver offerto all'artista lo spunto per esaltare anche le sante vergini siciliane, S. Rosalia, S. Agata, S. Lucia e S. Venera, che stanno insieme alla destra del Santo il quale veste il piviale azzurro, mentre un angelo gli sorregge il pastorale. Più alto a destra ancora un gruppo di santi: S. Caterina da Siena, S. Francesco d'Assissi, S. Domenico, S. Ignazio; la loro raffigurazione è stata forse ispirata dalla esistenza in Acireale di conventi di frati francescani, domenicani, e gesuiti. Al centro la Vergine Maria addita il Santo; accanto la raffigurazione in senso orizzontale della Trinità. Questa ricca assemblea paradisiaca asseconda la linea della volta con moto quasi concentrico intorno al Santo che dal suo angolo sembra ascendere continuamente verso l'alto, mentre vari angeli rendono leggiadra la composizione dell'insieme, equilibrando la disposizione dei gruppi. Anche i colori leggermente più accesi, ma sempre discreti, sembrano partecipare alla festosità della glorificazione. Alla sinistra del Cappellone si apre, in continuazione della navata minore, la Cappella del SS.mo Sacramento, cui i restauri del 1931 hanno conferito una certa opulenza. Infatti una statua del Sacro Cuore di Gesù, entro una nicchia costruita in quella data, occupa ora il posto dell'antica cupola del tabernacolo. Melchiere Greco, l'esecutore dei puttini marmorei della Cappella del Crocifisso, ed Alfio Greco lavorarono intorno al 1792 alla custodia marmorea del tabernacolo, trasformata poi, nel 1931, come si è detto, nella forma attuale. Sempre nel 1792 i maestri Mario Bella e Ignazio Ganzirri elaborarono il tabernacolo in legno e nella stessa epoca il maestro Alfio Serano allestì la porticina d'argento, dietro compenso di 29 onze. L'interno del tabernacolo e l'attuale porticina sono invece opera del maestro Priscilla da Acireale che la elaborò nel 1880 per inacrico dell'allora Vicario; lo attesta l'incisione "per devozione del Vicario Antonio Caramma 1880". Per testimonianza di Mons. Michele Cosentino, fondatore dell'O.A.S.I., il vecchi maestro Priscilla, accingendosi ancor giovane ad eseguire quel lavoro, dovette versare una certa somma al Vicario per garantire la riuscita dell'Opera, prima ad essere eseguita dal diciottenne artista. La porticina ripete la caratteristica forma a tamburo, tipica della zona acese, e raffigura l'episodio evangelico della cena di Emmaus. Vi si notano mirabili effetti chiaroscurali nella mensa e all'interno eleganti colonne sorreggono un architrave, parimenti in rilievo, anche aseconda il vano arcuato del tabernacolo. Malgrado la giovane età del maestro, l'opera è veramente pregevole e merita di essere associata in un lusinghiero giudizio alle altre egregie esecuzioni che adornano la Chiesa Madre. Solida nel suo vetusto candore, la Chiesa Madre di Aci Sant'Antonio continua ad accogliere in un mistico abbraccio i suoi figli che in essa scandiscono sacramentalmente i momenti salienti della vita.


IL Santo Patrono S. Antonio Abate

Insigne padre del monachesimo, nacque circa l'anno 250. Dopo la morte dei genitori udendo nella liturgia il Vangelo: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri” (Mt 19, 21); “distribuì i suoi averi ai poveri, si ritirò nel deserto e lì cominciò la sua vita di penitente. Il suo esempio ebbe vasta risonanza e fu segnalato a tutta la Chiesa da sant’Atanasio. Ebbe molti discepoli e molto lavorò per la Chiesa, sostenendo i martiri nella persecuzione di Diocleziano e aiutando sant'Atanasio nella lotta contro gli Ariani. Morì nell'anno 356.
Del monaco più illustre della Chiesa antica, morto ultra centenario (250-356), ci è pervenuto uno dei più begli esempi di biografia. Ne è autore S. Atanasio, che di Antonio era amico e zelante discepolo. Il biografo non ha trascurato alcun particolare che potesse illuminare sulla personalità, le abitudini, il carattere, le opere e il pensiero del caposcuola del monachesimo. Nato a Coma nel cuore dell'Egitto, a vent'anni Antonio aveva abbandonato ogni cosa per seguire alla lettera il consiglio di Gesù: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi ciò che hai...". Si rifugiò dapprima in una plaga deserta e inospitale tra antiche tombe abbandonate e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse per ottant'anni vita di anacoreta.
L'esperienza del "deserto", in senso reale o figurato, è ormai un metodo di vita ascetica, fatto di austerità, di sacrificio e di estrema solitudine: S. Antonio, se non l'iniziatore, ne fu l'esempio più insigne e stimolante. Infatti, pur non avendo redatto alcuna regola di vita monastica o aver incoraggiato altri a seguirlo nel deserto, Antonio esercitò un grande influsso dapprima tra i suoi conterranei, e poi in tutta la Chiesa.Il richiamo della sua straordinaria avventura spirituale, pur in assenza dei mass media e delle rapide comunicazioni moderne, si propagò a tal punto che da tutto l'Oriente monaci, pellegrini, sacerdoti, vescovi, e anche infermi e bisognosi, accorrevano a lui per ricevere consigli o conforto. Lo stesso Costantino e i suoi figli si mantennero in contatto con il santo anacoreta. Pur prediligendo la solitudine e il silenzio, Antonio non si sottrasse ai suoi obblighi di cristiano impegnato a riversare sugli altri i doni con cui Dio aveva ricolmato la sua anima: due volte egli lasciò il suo eremitaggio per recarsi ad Alessandria, sapendo che la sua presenza avrebbe infuso coraggio ai cristiani perseguitati da Massimino Daia. La seconda volta vi si recò dietro invito di S. Atanasio, per esortare i cristiani a mantenersi fedeli alla dottrina sancita nel concilio di Nicea (325).Non è possibile parlare di questo illuminato "contestatore" senza accennare alle tentazioni che turbarono la sua solitudine nel deserto e che fornirono a pittori come Domenico Morelli il pretesto per ritrarlo tra donne procaci: S. Antonio fu infatti bersaglio di molteplici tentazioni del maligno che gli appariva sotto sembianze angeliche, umane e bestiali. Questo santo umanissimo, pur nell'austera immagine dell'anacoreta, è veneratissimo come protettore degli animali domestici, umile ruolo che lo rende tuttora popolare ed amato. Le Reliquie di S.Antonio. Verso il 561, sotto l’imperatore Giustiniano, fu scoperta la sua sepoltura grazie ad una rivelazione e le reliquie furono trasportate ad Alessandria d’Egitto e deposte nella chiesa di S. Giovanni Battista. Nel 635, in occasione dell’invasione araba in Egitto, i resti mortali di S. Antonio furono traslati a Costantinopoli da dove un crociato, di ritorno dalla Terra Santa, li portò in Francia, a Saint-Didier de la Motte (sec. XI). La chiesa costruita per accoglierli fu consacrata da Callisto II nel 1119 e vicino ad essa sorse un ospedale condotto dagli Antoniani, che accoglieva numerosi pellegrini che vi si recavano per invocare il Santo che godeva la fama di guaritore dall’ergotismo (malattia chiamata ignis sacer o fuoco di S. Antonio). In seguito i resti di Antonio furono traslate a Saint-Julien presso Arles (1149).

Le varie tradizioni nei secoli

Dal 1700 fino al 1947 la festa del Santo si è arricchita di sempre maggiori tradizioni al fine di solennizzare e rendere maggiore gloria al S. Patrono. Così a partire dal 1774, come si legge in alcune minute conservate presso l’archivio parrocchiale, si hanno le prime comparse delle candelore che prima erano in numero di sei fino ad arrivare ad un numero di otto: dei primi sei sappiamo il nome delle categorie: “Consoli, Massari, Religiose, Donne, Mastri e Cavallucci”. Queste candelore erano costituite da grossi ceri e portati a spalle con delle barrette in legno. Poi alla fine dell’Ottocento furono sostituite dalle attuali candelore. Questi ceri accompagnavano processionalmente la statua del Santo illuminandone il percorso. Oltre ai ceri, i più anziani, si ricordano la “calata dell’angelo”, che si faceva in Piazza Raimondo Cantarella e ai Quattro Canti. Al passare del Santo un angelo, che stava sotto un baldacchino, scendeva offrendo delle offerte in denaro o dei fiori di campo. La vigilia della festa, e cioè il 16 gennaio, avevano luogo le cantate. Due quartieri, quello di Nardalici e quello dei Quattro Canti preparavano dei carri allegorici rappresentanti scene della vita del Santo. I carri venivano tirati fino in piazza e l’entrata avveniva di corsa al grido “Viva S. Antonio”. Appena il carro sostava in piazza si apriva facendo apparire il Santo in gloria. Seguivano i fuochi d’artificio e quindi la cantata che era composta da tre parti: introduzione, preghiera, cabaletta. Ogni quartiere aveva la sua cantata. Ma le cantate non erano sempre le medesime; ogni tanto venivano sostituite da nuovi brani. Tra i due quartieri c’era una vera rivalità e un grosso spirito di emulazione. I più anziani ricordano pure che il giorno della festa, prima dell’uscita delle candelore, avveniva la corsa dei cavalli con partenza del palazzo Cardaci fino ad arrivare a Nardalici.


La statua

Ci piace pensare che, durante l’eruzione del 1404, gli abitanti di Casalotto si recassero a Lavina per implorare da Dio la grazie per l’intercessione di S. Antonio, con la statua del Santo Anacoreta. Se così fosse quella statua risalirebbe al 1400. ma, poiché non abbiamo in nostro possesso nessun documento, dobbiamo accettare come data indicativa quella che autorizza gli abitanti di Casalotto di poter portare in processione per le strade della contrada la statua del Santo e, cioè, il 1563. non conosciamo pertanto né l’anno esatto della fabbrica della statua né l’artista che la modellò. Il materiale usato per la realizzazione della statua è in resina mista a cenci. Il volto e le mani sono scolpite in legno. Originariamente la statua doveva essere composta dalla sola immagine del Santo senza gli angeli che lo attorniavano. Il Santo anacoreta ci si presenta vestito dal camice bianco con un grosso stolone che lo attraversa per tutta l’altezza e dal piviale; la mano destra è alzata nell’atto di benedire mentre, con la mano sinistra, avrebbe dovuto reggere il libro dei Vangeli. L’aggiunta della seconda base ha arricchito la statua di due angeli, della presenza in miniatura di S. Macario, rivestito dagli abiti liturgici, che regge in mano il libro delle benedizioni. Scompaiono dalla mano sinistra del Santo il libro dei vangeli e dalle mani di S. Macario il libro delle benedizioni. Attualmente la statua del S. Macario regge gli ori votivi. L’originaria base del Santo reca, per i quattro riquadri, scene allegoriche tratte dal mondo della mitologia. La statua così costituita è chiusa in una cappella e viene svelata ogni anno per la festa del Santo.



L'origine della Candelore

L’origine delle candelore si perde nella notte dei tempi e, a dire del Lanzafame, è di origine pagana. Infatti le matrone romane nel mese di febbraio per propiziarsi il favore della del della fertilità, offrivano ceri votivi. L’avvento del cristianesimo, non potendo cancellare una così radicata tradizione pagana, l’ha voluta ridefinire vedendo nel cero acceso la luce del Cristo che, disperdendo le tenebre del peccato, restituisce agli uomini la luce della Grazie. Questa tradizione, sotto il pontificato di Papa Gelasio I, fu riproposta nella festa della purificazione della Madonna. Di fatti anche oggi si suole dire la festa della candelora, e in quel giorno i cristiani accendevano ceri votivi inneggianti a Cristo, luce del mondo. Ma la spontaneità popolare ha voluto arricchire e decorare il proprio cero come segno distintivo della propria fede e devozione e da questa iniziativa, nacque l’usanza di decorare ed arricchire il cero votivo nella festa della candelora. Nel 1600, a Catania, troviamo questi ceri riccamente ornati detti candelore o gigli offerti alla Vergine Agata. La tradizione vuole che questi ceri fatti dalla cera delle api, fossero particolarmente pesanti e riccamente ornati a tal punto da richiedere più portatori. Fu il Settecento il secolo in cui questi ceri ornati furono muniti di struttura in legno. Questa usanza catanese di devozione si diffuse rapida nei paesi etnei; infatti anche i santantonesi offrirono al loro patrono dapprima sei ceri i poi otto come ci riferisce la misura minuta del 1774. Solo alla fine del secolo e all’inizio di questo le otto torce di cera d’api dipinte e sostenuto in una struttura in legno furono sostituite in vere e proprie opere d’arti in legno scolpito e dorato che portano, nella parte terminale, il chiaro segno della torcia in cera che viene attualmente nascosta da una corona in legno dorato riccamente colorata.


Cereo degli agricoltori della piana di Catania, dal 1971 cereo degli impiegati

Il cereo degli agricoltori della piana di Catania è l’ultimo dei quattro cerei offerti a S. Antonio. Questo cereo fu voluto nel 1945 dall’allora giovane Gaetano Andreano, fu scolpito dal concittadino Salvatore Murabito, che ne aveva eseguito i disegni collaborato dallo scultore catanese Piccione. Le opere di falegnameria furono eseguite dal Sig. Mario Pappalardo. La candelora fu montata nelle sue parti in legno nella chiesa dei mercenari e poi portata a spalla la sera del 16 gennaio del 1947. Di questa candelora possediamo l’atto costitutivo della concessone e la minuta descrizione della candelora che qui di seguito riportiamo dall’originale:
“L’anno millenoventoquarantasei il giorno dieci febbraio in Aci S. Antonio nella casa parrocchiale. Tra i sottoscritti Andranno Gaetano di Antonio e Pappalardo, Mario da Aci. S. Antonio mercé la presente da avere pieno effetto legale si conviene quanto segue: premesso che gli Agricoltori di Aci S. Antonio lavoranti alla piana rappresentati dal comitato composto dai sigg.:
1°) Rev. Parroco Sa. Pasqualino Lanzafame;
2°) Andranno Gaetano di Antonio;
3°) Tosto Giuseppe fu Alfio;
4°) Chiarenza Vincenzo di Salvatore;
5°) Ferrara Antonio fu Vincenzo;
6°) Barbagallo Salvatore fu Gaetano,
hanno indetto l’asta per l’appalto, costruzione del “CEREO”, della loro categoria in onore del Patrono S. Antonio Abate s’è conclusa con l’aggiudicazione definitiva al Sig. Pappalardo Mario fu Rosario quale minore offerente in £. 188.000 (centottantotto mila lire) si definisce:
1°) Il Sig. Andranno Gaetano di Antonio in rappresentanza degli agricoltori della piana, concede al Sig. Pappalardo Mario fu Rosario la costruzione del cereo appresso descritto e il Pappalardo dichiara di accettare le condizioni che seguono con impegno di assoluta osservanza.
2°) Inizio del lavoro entro il corrente mese. Il cereo sarà lungo m. 4 alla corona; largo alla base m 1,45.
Sagome, disegno e tutto come da bozzetto a grandezza naturale redatto dallo scultore Sig. Murabito Salvatore. Stile “Roccocò” orizzontale e verticale. Legno tiglio o noce di Napoli evaporata. Stagionato. Il cereo sarà costruito d’una sola qualità di legno sia all’interno come all’esterno. I quadri della vita del Santo saranno suggeriti dal Comitato. Gli ovali alla base saranno pure suggeriti dal Comitato. Sarà completo d’un torcione in legno delle stesse dimensioni di cui a quello dei Contadini con meccanismo per innalzarlo o abbassarlo. Sarà pure fornito di due spranghe di legno faggio, come gli altri Cerei esistenti in Parrocchia. Tali spranghe si introdurranno in buchi rinforzati da graffe di ferro partenti fisse alla base. Scultura fine lavorazione accurata tale da costituire una armoniosa e ottima opera l’arte. Illuminazione a carico del Comitato, però il costruttore e tenuto a eseguire i lavori in modo da facilitarne l’impianto e nascondere i fili conduttori. Gli angeli dovranno avere una espressione mistica, visi belli e ove occorra un panneggio.
Il posto dell’accumulatore elettrico sarà al centro dei quadri in cassetta fornita dal costruttore e fissa. Uno dei quadri dovrà aprire e chiudere ermeticamente per il collocamento dell’accumulatore. Tutto costruito a regola d’arte con rinforzi in ferro come il cereo dei Contadini, e in modo da resistere bene alle scosse dei portantini. Consegna a semplice lavoro rifinito a carta vetrata, montato, in Aci S. Antonio entro il mese di ottobre corrente anno il locale che designerà il Sig. Andranno Gaetano.
I pagamenti dell’importo spesa in lire CENTO OTTANTA MILA saranno eseguiti al Sig. Andreano Gaetano al costruttore Pappalardo Mario come segue: Un questo cioè £. 47.000 all’ultimazione del primo tronco o base cioè quando il lavoro avrà raggiunto i m. 1,25 di altezza; Un quarto all’ultimazione del terzo tronco e l’ultimo quarto e il deposito alla consegna completa del cereo montato in Aci S. Antonio.
Il Sig. Andreano riserva per sé e per il Comitato il diritto assoluto di sorvegliare o fare sorvegliare i lavori che dovranno eseguirsi in Aci S. Antonio, di accertare o fare accertare la qualità del legname, la bontà, solidità e qualità del lavoro a mezzo anche di persone di propria fiducia e se a giudizio di persona di propria fiducia e se a giudizio di persona tecnica i lavori, il disegno, le sagome, la scultura, i putti e ogni cosa non corrisponderanno alle condizioni qui espresse e al disegno depositato il Comitato dichiara sin da ora come non concluso alcun contratto con l’appellatore e non sarà tenuto a corrispondere alcuna somma per il lavoro iniziato né a restituire il deposito rimanendo libero di scegliere altro costruttore. Si dà atto che gli angeli sono venti oltre quattro teste sotto i quadri.
Per quanto qui non espresso s’intende che il Cereo dovrà essere costruito solido, resistente e con tutti i rinforzi in ferro come quello dei Contadini di Aci S. Antonio.”
Cereo dei carrettieri
Ci è difficile ricostruire con puntualità la storia del cereo dei carrettieri per mancanza di documenti. Oggi la candelora viene denominata dei carrettieri o commercianti, dato che il carretto ha ceduto il posto ai mezzi moderni di trasporto. Questo cereo è il più alto dei quattro e nella sua struttura conserva quella vivacità di colori e di movenze tipiche del carretto. La candelora ultimamente e stata arricchita da quattro angioletti che sono stati posti sopra i riquadri che narrano la vita del Santo. La candelora conta ben dodici angioletti e quattro cherubini. I quattro angeli che stanno vicino ai riquadri recano nelle mani le insegne episcopali: mitria, pastorale, il,libro ed il fuoco. Questo cereo, a dire degli anziani, fu progettato, scolpito, montato e dipinto ad Acireale. Promotore della costruzione è stato Don Ignazio Spina, mentre Sebastiano Lo Vecchio fu lo scultore Acese a cui furono affidati i lavori.
Cereo dei contadini
Il più antico e monumentale per la sua forma è il cereo dei contadini detto anche “u tronu”. La sua struttura e la rifinitura nella scultura la fa eccellere tra i quattro cerei votivi. È alta quattro metri circa e pesa, a dire dei più anziani, tra i novecento e i mille chili. Non abbiamo potuto sfatare questo mito per mancanza di mezzi idonei. Interessante in questo cereo, oltre alle sculture dell’ornato, sono gli otto angioletti che la ornano di pregevole fattura; infatti nelle loro movenze richiamano schemi di scultura classica; particolarmente originali sono i quattro riquadri in quanto presentano i fondali in pittura, avendo in primo piano le sculture a tutto volume dei personaggi che narrano la vita del S. Anacoreta. La candelora fu costruita nel 1896, come ci informa la targhetta posta nella parte superiore dei riquadri. Lo scultore fu un catanese, Don Alessio, che nella sua bottega eseguì le diverse sculture che furono poi montate qui, ad Aci S. Antonio, nel collegio di Maria SS. Della Provvidenza. Questa monumentale opera fu realizzata grazie ai tesorieri: Di Giovanni Salvatore (u Pintu), Torrisi Mario, Vincenzo Casentino, Sebastiano Finocchiaro, Antonio Finocchiaro.
Cereo dei mastri o artigiani
Questo cereo, poiché presenta una diversa fattura tra la parte inferiore e quella superiore, ha spinto alcuni tra i più legati al cereo ad asserire che questo è il più antico dei quattro e mostrano come prova che è l’ultimo nell’ordine quando questi vengono portati in chiesa. Noi non abbiamo alcun documento che ci attesti l’antichità della candelora e ci rifacciamo alla data posta in una delle tavolette che reggono gli angeli: 1911. Dei quattro cerei è il più minuto tanto da meritare l’appellativo “Signorina”. Sedici angioletti ornano la candelora se si escludono i quattro cherubini che stanno nella parte bassa dei riquadri e i quattro angeli che reggono la parte superiore della candelora. Come dicevamo sopra, questa candelora è stata scolpita da più scultori: la parte inferiore è stata eseguita a Catania dal prof. Caviglieri, mentre la parte superiore fu scolpita nella bottega di falegnameria al largo Cantarella dal Sig. Giuseppe Ferrara (Tirichica). Non si conoscono i nomi dei diversi scultori che hanno portato a termine il lavoro. I quattro riquadri narranti scene della vita del santo, furono sostituiti con nuovi pannelli scolpita da Alfio Nicolosi. Questi nuovi pannelli riproducono le medesime scene delle vecchie.
A vara
Il Settecento è il periodo della ricostruzione dopo la catastrofe avvenuta con il terremoto del 1693. E’ il secolo d’oro per il nostro paese; infatti sono di questo periodo le più belle opere di architettura, scultura e pittura che ci sono nel nostro comune. Espressione di questa vitalità è senza dubbio l’artistico percolo che accoglie la monumentale e vetusta statua del Santo Patrono. Il legname per la costruzione del percolo fu acquistato da un certo Giovanni Cutroni e compagni da Messina anno 1709 e otto anni più tardi venne completato con la costruzione del baiardo e rifiniture nelle parti inferiori. L’artistico percolo presenta sei colonne corinzie che reggono con le sei arcate uno stupendo cupolone riccamente ornato. Le arcate sono arricchite da cinque lampade in argento sbalzato. Nel 1957 il fercolo fu restaurato e venne arricchito da sei angioletti seduti che recano le insegne episcopali: Mitrie, Pastorale, il libro dei vangeli, il Tau il fuoco e lo stemma cittadino. Qui di seguito riportiamo la lettera che il comitato organizzatore distribuì ai fedeli per la raccolta dei fondi per il restauro.
Promotore di tale iniziativa fu Salvatore Ilardi, Sindaco del comune.
“Carissimi concittadiniLa bara Bara del glorioso nostro Patrono S. Antonio Abate, costruita nell’anno 1710 dai nostri antenati ha urgente bisogno di essere riparata e indorata. È stato questo il pensiero e il desiderio di tutti e speriamo che esso diventi realtà. Dove prendere il denaro sufficiente? Il Comitato attuerà varie iniziative e ha pensato anzitutto di chiedere un contributo a tutti i concittadini. Questa lettera circolare è stata mandata a tutte le famiglie e si vuole sperare che la vostra fede nel nostro glorioso Patrono e il nostro amore verso la nostra città, accoglierà con simpatia e generosità la nostra iniziativa e ci metterà in condizione di allestire per il nostro S. Antonio una Bara degna delle nostre secolari Tradizioni.”
'U Coppu
E’ un contenitore in argento sbalzato che reca l’immagine del santo anacoreta e, nella parte posteriore, si legge la data 1837. ‘U coppu veniva affidato, come accade ancora oggi, ad un membro della commissione per la raccolta delle offerte nei giorni di domenica o di festa; quando la piazza si popolava di gente. Le offerte raccolte servivano per solennizzare la festa del Santo Patrono, mentre le varie categorie si adoperavano con autotassazione per abbellire il loro cero e per lo sparo sei fuochi di artificio. Difficile è quantificare quanto generalmente si spende per la festa del Santo, perché le varie categorie dei ceri mantengono il riserbo sulle spese sostenute per gli spari dei fuochi di artificio. A festa ultimata la missione uscente porta “ ‘U coppu ” alla casa del nuovo cassiere accompagnato dalla banda cittadina. Per un Santantonesi è un onore e un onere a volte gravoso essere cassiere di una manifestazione di così largo respiro, questi deve fungere da perno coordinatore tra le varie categorie e la commissione centrale.

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